Le molte vite di Alberto Mario Cirese

 

 

 

 

“Non basta allo studiare solo una vita”: questo era uno dei proverbi autoprodotti a cui Alberto Mario Cirese era da ultimo più affezionato. Lo aveva posto come esergo sulla pagina di apertura del suo sito www.amcirese.it, attivato nel 2007 e spentosi nel 2021, dieci anni dopo di lui.

Cirese, studioso anche di paremiologia (tra gli interventi più recenti, ricordiamo I proverbi: studiare quello che dicono o cercare di capire come fanno a dirlo?, tenuto a un convegno del 2006), inventava proverbi, o meglio ‘detti’, come li chiamava lui, espressioni icastiche che amava ripetere nella conversazione o nelle lezioni, e anche utilizzare come titoli (“A testo laico laica lettura”, “A domande concrete astratte risposte”, “Dall’esistente all’auspicabile nella misura del possibile”, “Le ideologie passano, i metodi restano”, “La storia locale non si ricostruisce con metodo locale”, “Il cuore nel luogo, il cervello nel mondo”).

“Non basta allo studiare solo una vita” è degli ultimi tempi, quando la vita dell’uomo si avvicinava alla fine ma lo studioso continuava a progettare e guardare avanti. Proprio come suo padre Eugenio, che due anni prima di morire lanciò il progetto della rivista La lapa. Allora, nel 1953, Alberto Mario trentaduenne si arrabbiò con il padre, ma poi lo aiutò a realizzare quel progetto. Oltre cinquanta anni dopo a sua volta volle aprire un sito internet in cui pubblicare tutti i suoi lavori e altro ancora.

È degli ultimi tempi, questo ‘detto’, e ha un sapore insieme di rimpianto (“la mia vita sta finendo, e tanto ancora voglio studiare”) e di grande apertura, fa intravedere una vita e uno studiare senza confini, senza limitazioni temporali. Tale in effetti è la vita degli studiosi veri, di quelli che lasciano un’opera che continua a essere studiata dalle generazioni successive. Tale è stata la vita di Alberto Mario Cirese, studioso vero la cui opera continuiamo a studiare. Ma Cirese si portò avanti col lavoro, e, vivo, ben vivo e vegeto, praticò da subito l’obiettivo di vivere più vite, come uomo e come studioso.

Quante furono? Nel 1996 Pietro Clemente e Eugenio Testa contarono sette Cirese, nel 2005 Eugenio Testa arrivò a nove. Insomma Cirese era come i gatti, da lui amati, che hanno molte vite: sette per i latini, nove per gli anglosassoni.

Se riconsiderassimo oggi la questione, rimescolando un po’ le carte dei conteggi precedenti, che diremmo?

Potremmo dire che una vita che Cirese ha intensamente vissuto è stata quella delle relazioni con luoghi e persone: luoghi in cui ha vissuto e operato, persone con cui in quei luoghi ha interagito. È il Cirese delle ‘patrie’, il Cirese che dice di sentirsi, per scelta, marsicano perché ad Avezzano, città della madre, è nato e vissuto alcuni anni, frequentando le prime scuole; molisano, come il padre, perché in Molise ha vissuto, studiato e fatto ricerca; sabino, perché a Rieti la famiglia si trasferì e visse a lungo, e anche a Rieti lui studiò e fece ricerca, e fece politica attivamente; sardo, perché a Cagliari iniziò la sua carriera accademica e vi rimase un quindicennio, facendo scuola; messicano, perché in Messico andò cinque volte a insegnare e a studiare, tra Città del Messico, Colima e Toluca. Patrie d’elezione, tali per tutto quello che Cirese in questi luoghi ha fatto, ma forse soprattutto per le relazioni umane che vi ha vissuto e mai dimenticato nei decenni, relazioni che hanno anche fatto sì che in tutti e cinque i luoghi lo chiamassero a parlare dell’identità locale.

L’importanza attribuita alle relazioni umane, agli affetti, ha sostanziato le molte vite di Cirese. “Se penso agli inizi del mio itinerario culturale, dico: ‘mio padre, il Musée de l’Homme di Parigi e i contadini socialisti della Piana di Rieti’”, disse in una intervista del 1994: dei tre fondamenti per i quali Cirese è diventato Cirese, due sono identificati con persone in carne e ossa, ma anche per il terzo, una istituzione come il Musée de l’Homme, sappiamo dai suoi scritti e dai suoi ricordi quanto forte fosse il riferimento alle relazioni personali stabilite nella Parigi del 1953. E “i contadini socialisti della Piana di Rieti” è il nome che Cirese dà a un’altra delle sue vite, quella della politica attiva, che è stata il suo centro di gravità per un periodo delimitato (una dozzina d’anni, tra il 1945 e il 1957), in relazione sostanzialmente a una sola delle patrie, quella sabina, e che non ha mai vissuto in modo esclusivo, totalizzante (dopo la laurea nel 1944 con Paolo Toschi non ha mai abbandonato gli interessi di studio). Ma è stata una vita vissuta intensamente, da attivista socialista, assessore presso il Comune e la Provincia di Rieti, autore di interventi su giornali e riviste militanti. È una vita che ha deciso di interrompere, scegliendone un’altra, quando, tra il 1957 e il 1958, prima accettò l’incarico di docente di Storia delle tradizioni popolari presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari, e poi rifiutò la candidatura alla Camera dei Deputati che il Partito Socialista gli aveva proposto per le elezioni politiche del 1958.

La vita di docente universitario comincia per Cirese a Cagliari con l’anno accademico 1957/1958. È una vita che andrà avanti a lungo: insegnerà poi a Siena e a Roma, sarà collocato a riposo nel 1991, ma per altri cinque anni sarà ancora, come professore fuori ruolo, alla Sapienza, che nel 1997 lo dichiarerà Professore emerito. Vita lunga, quella del docente universitario Cirese, ma ancora più lunga quella del Cirese docente tout court: aveva cominciato come supplente nelle scuole del Reatino, e poi era diventato di ruolo insegnando a Roma all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci. Ci teneva, Cirese, a considerarsi un insegnante, e non solo un accademico, perché era molto orgoglioso di essere figlio e nipote di maestri elementari.

Siamo già arrivati finora a contare tre vite, per Cirese: l’uomo delle cinque patrie, il politico, l’insegnante. Ma siamo partiti dal motto “Non basta allo studiare solo una vita”: e lo studio, lo studiare è stata la passione di tutta la vita adulta di Cirese, che come studioso le vite le ha moltiplicate, dedicandosi a temi diversi, facendo uso di approcci diversi, anche se con una forte coerenza: sempre è riconoscibile uno stile, una voce, fatti di rigore e di asciuttezza, di chiarezza espositiva, ma anche di una attenzione affettuosa per le parole, di un gusto per la ricerca del ‘bello’, oltre che del ‘certo’ e del ‘vero’ (scienza e poesia stanno bene insieme).

Vediamo allora che Cirese si è molto occupato di storia degli studi, dedicando alla demologia italiana quadri d’insieme, storie locali, profili su temi specifici, e numerosi contributi su singoli studiosi, raccoglitori e autori. Almeno tre aspetti risaltano nella sua vita di storico: l’attenzione per il nesso tra singoli oggetti di studio, autori o temi che siano, e il contesto, sociale e disciplinare, in cui operano o insistono; lo sforzo di collegare storie e contesti in quadri interpretativi che illustrano e sostanziano i più generali movimenti di scuole, di teorie, di correnti di pensiero; il tentativo, dichiarato, di valutare il lavoro di autori e studiosi non in relazione a quanto sarebbe successo dopo, a una loro capacità di precorrimento, ma a quanto era a loro coevo: “tra due posizioni coeve, io giudicavo positivamente quella che avesse una universalità maggiore dell'altra”. Quest’ultimo aspetto è quello che consente di valorizzare il lavoro di chi non ricostruisce la storia locale con metodo locale, di chi ha il cuore nel luogo e il cervello nel mondo, e insomma consente di porre “il centro in periferia”, come dice Pietro Clemente riprendendo Adorno. Questo approccio di Cirese alla storia degli studi lo si coglie per esempio nella costruzione di Cultura egemonica e culture subalterne e nel dialogo delle parti in cui il libro è costruito, quella teorica, quella storica, quella metodologica; e lo si coglie nel grande progetto incompiuto di Mondo culto e mondo popolare, che era quello di raccogliere tutti i suoi scritti su intellettuali non studiosi professionisti del mondo popolare (dunque non folkloristi, non etnologi) che del mondo popolare italiano si sono occupati, “materiali per una storia degli atteggiamenti ideologici che la borghesia intellettuale italiana ha assunto verso il mondo subalterno, dal popolarismo romantico alla rottura gramsciana”.

Abbiamo citato Cultura egemonica e culture subalterne: la stesura di quel libro segnò il compimento di una missione che Cirese si era assegnato, che già da sola varrebbe una vita intera di studioso, cioè quella di dare spessore teorico e legittimità transdisciplinare al campo di studi a cui dalla metà degli anni ’50, dopo la rottura con Ernesto de Martino, aveva deciso di dedicarsi. Le nozioni di dislivelli di cultura e di circolazione culturale, i concetti gramsciani di egemonia e di subalternità, il dialogo teorico con la linguistica e la semiotica, l’uso delle analisi formali e strutturali sono le novità che gli suggeriscono di proporre anche un cambio di nome per la disciplina, che volle chiamare demologia, piuttosto che storia delle tradizioni popolari o folklore.

Fu un cambio di passo deciso, ma realizzato con la scelta precisa di non buttare il bambino con l’acqua sporca. Non si trattava di andare contro gli studi di folklore di Pitrè, Toschi e Cocchiara, ma oltre. A questo serviva il forte rinnovamento teorico, e a questo doveva servire il rinnovamento metodologico non meno forte. Ma anche il Cirese metodologo (un’altra vita!), servendosi di nuovi strumenti, voleva mantenere quanto di valido gli arrivava dalla tradizione disciplinare. È in base a questa considerazione che possiamo tenere insieme aspetti del lavoro di Cirese certamente anche molto diversi tra loro, come lo studio dei testi di tradizione orale (fiabe, proverbi), l’uso delle analisi strutturali e della logica formale, l’impiego euristico oltre che strumentale dell’informatica: è la filologia del ventunesimo secolo. La filologia per Cirese è maestra: in senso stretto è maestra di scienza (“La linguistica ai miei occhi è, insieme alla filologia, la maestra delle scienze umane”), in senso largo è maestra di vita (“Caro Cirese, prima la filologia e poi il socialismo”; questo era uno dei detti proverbiali più cari a Cirese, che lo attribuiva ad Angelo Sacchetti Sassetti, filologo, ultimo sindaco pre fascista e primo sindaco post fascista di Rieti, nella cui giunta del 1946 Cirese era assessore). La filologia come documentazione del certo, su cui poggiare i piedi per la ricerca del vero.

Uno degli aspetti della ricerca del vero che più stava a cuore a Cirese portava a quella che lui chiamava ‘antropologia delle invarianze’: se l’antropologia si muove, come lui diceva, nello spazio che sta tra “paese che vai, usanza che trovi” e “tutto il mondo è paese”, lo studio della diversità culturale, dell’alterità, poteva portare a considerare gli ‘altri’ non come ‘altri da sé’ ma come ‘altri sé’. Anche in questo voleva collegarsi alla tradizione dei Tylor, dei Frazer, dei Lévi-Strauss, per l’uso della comparazione e per il tema della ‘unità della mente umana’, al quale aggiungeva quello a lui caro dell’elementarmente umano. Anche in questo stava in fondo il suo interesse per gli studi parentologici, con la ricerca di un metalinguaggio capace di descrivere tutti i sistemi di parentela del modo. E anche in questo stava l’impiego euristico oltre che strumentale dell’informatica: costruì un programma per lo studio del calendario Maya, che dimostrava che gli assunti culturali sul calcolo del tempo variano, tra noi e i Maya, ma non variano gli strumenti intellettuali impiegati da noi e dai Maya per eseguire quei calcoli. E lo stesso potrebbe dirsi dei programmi che costruì per lo studio dei sistemi di parentela.

Un’altra delle aree del lavoro di Cirese è stata quella dell’antropologia dei patrimoni culturali: il censimento, la catalogazione, la classificazione, la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali demo-etno-antropologici (denominazione da lui stesso coniata). Cirese se ne è occupato sia in termini teorici, scrivendo per esempio di museografia contadina e di arte popolare, e discutendo sulla nozione di beni volatili o inoggettuali (da altri autori detti “beni immateriali”), sia in termini pratici: ricordiamo solo il lavoro del Repertorio e Atlante Demologico Sardo, avviato ai tempi dell’insegnamento a Cagliari, e quello svolto a Taranto sulla collezione di Alfredo Majorano all’inizio degli anni ’70, ripreso poi trent’anni dopo.

Pratica e teoria le ritroviamo nell’ultimo aspetto delle molteplici vite di relazioni e di interessi di cui Cirese è vissuto, che vogliamo evidenziare: la ricerca sul campo. La pratica è quella fatta tra il 1951 e il 1967 raccogliendo canti, musiche e testi di tradizione orale tra Sabina (febbraio 1951 e aprile 1953), Molise (maggio e poi giugno-luglio 1954) e Sardegna (marzo 1959 e aprile 1967). In cinque occasioni la ricerca gli fu commissionata da Giorgio Nataletti per il Centro Nazionale di Studi sulla Musica Popolare (collegato con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e con la RAI): Raccolta 16 nel 1951, Raccolta 21 nel 1953, Raccolta 23 nel maggio 1954, Raccolte 46 e 112 nel 1959 e nel 1967); nel maggio 1954 Cirese lavorò insieme con Diego Carpitella, poi amico di una vita. La ricerca dell’estate 1954 fu invece svolta autonomamente, anche per raccogliere materiale per il secondo volume dei canti popolari del Molise, che il padre Eugenio stava preparando e che uscì dopo la sua morte, completato e curato da Alberto.

La teoria è quella che lo porta a progettare e coordinare prima l’impresa del Repertorio e Atlante demologico Sardo, dall’inizio degli anni Sessanta, e poi l’unica campagna nazionale di rilevazione sul campo mai fatta in Italia in ambito demologico, promossa dalla Discoteca di Stato e realizzata tra il 1968 e il 1972, con quaranta ricercatori impegnati a raccogliere fiabe, leggende, proverbi, indovinelli e altri testi di tradizione orale in tutte e venti le regioni italiane. Cirese ne curò anche il catalogo, insieme alla moglie Liliana Serafini, pubblicandolo nel 1975 (Tradizioni orali non cantate. A cura di A.M. Cirese e L. Serafini. Con la collaborazione iniziale di A. Milillo. Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Discoteca di Stato), e spesso disse che era questa l’opera di cui andava più fiero.

Per concludere, rifacciamo i conti. Abbiamo detto che c’è il Cirese delle cinque patrie, il politico, l’insegnante, e poi lo storico degli studi, il teorico della demologia, il metodologo filologo, l’antropologo delle invarianze, l’antropologo del patrimonio culturale, il pratico-teorico delle rilevazioni di campo.

Quanti Cirese sono? Quante vite ha praticato colui che alla fine si era accorto che allo studiare una vita non basta?

Nove.

E allora, Cirese è un gatto inglese.

 

E.T.