martedì 19
marzo 2019
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della lezione
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Presentazione del
corso: i testi d'esame; le esercitazioni di scrittura o di lettura per
i frequentanti.
Il tema delle apocalissi culturali, della fine di un mondo che
prelude all'avvento di un altro mondo (tema distinto da quello delle apocalissi
psicopatologiche: fine del mondo, catastrofe individuale senza
rimedio e senza riscatto) può essere declinato in molti modi, e
molte opere possono essere interpretate come rappresentazioni della fine
di un mondo (come ha fatto lo stesso de Martino lavorando al progetto
de La fine del mondo) e possono essere prese in considerazione
per le esercitazioni di scrittura e di lettura. Qualche esempio:
- Victoria Donda, Il mio nome è Victoria (Milano, Corbaccio,
2010; ed. orig. 2009): la storia della figlia di una coppia di desaparecidos
argentini che solo a 27 anni di età, nel 2003, seppe chi erano
i suoi veri genitori e cominciò a fare i conti con la vita che
aveva vissuto fino ad allora
- John Steinbeck, Furore (Milano, Bompiani, 2013; ed. orig. 1939):
attraverso le vicende della famiglia Joad si narra la tragedia della migrazione
forzata dai campi desertificati dell'Oklahoma verso la speranza di una
nuova vita nella fertile California (per inciso, il titolo originale,
The grapes of wrath, riprende un verso di una composizione della
poetessa Julia Ward Howe, a sua volta ispirato a due versetti dell'Apocalisse
di Giovanni)
- Apocalypse now (1979), film di Francis Ford Coppola, che ambienta
le vicende del romanzo Cuore di tenebra (1902) di Joseph Conrad
nel contestodelle fasi finali della guerra del Vietnam (1955-1975)
- Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, film di Clint
Eastwood, entrambi del 2006, che raccontano vicende della battaglia di
Iwo Jima, isola giapponese, all'inizio del 1945, presentandole dai due
punti di vista opposti e complementari degli americani prossimi alla vittoria
e dei giapponesi prossimi alla sconfitta
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venerdì 22 marzo
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della lezione |
Alcune risorse in rete riguardanti Ernesto de Martino e la sua opera:
- sul sito della Treccani (http://www.treccani.it/):
articolo di Marcello Massenzio Ernesto
De Martino e l'antropologia (2012);
Il mondo è la storia vivente degli altri in noi: presentazione
della edizione francese della Fine del mondo (Roma, 16 maggio 2018);
il convegno De
Martino antropologo del mondo contemporaneo (Roma, 26-27 maggio 2016)
- Teche RAI (http://www.teche.rai.it/):
Nel
Sud di Ernesto de Martino: tre documentari di Luigi di Gianni presentati
dall'antropologa Clara Gallini (15 novembre 1977): "l male
di San DonatoI (1965), La potenza degli spiriti (1958), L'attaccatura
(1971)
- Associazione culturale Altrosud Archivio
Sonoro: Sud
e magia. In ricordo di Ernesto De Martino, un programma in quattro
puntate di Claudio Barbati, Giancarlo Mingozzi e Annabella Rossi RAI 1978
- YouTube: Presentazione
di Ernesto De Martino di Amalia Signorelli (Roma, 22 maggio
2015)
- L’Istituto Ernesto de
Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo
popolare e proletario, fondato nel 1966 per iniziativa di Gianni Bosio
e Alberto Mario Cirese
- Associazione
Internazionale Ernesto de Martino: pubblica on line la rivista Nostos,
e tutti
gli articoli scritti da de Martino
Cenni di biografia intellettuale di Ernesto de Martino: quattro interlocutori
per la sua formazione: Adolfo Omodeo, Vittorio Macchioro, Raffaele Pettazzoni,
Benedetto Croce; quattro città in cui ha vissuto e lavorato: Napoli
(1908-1935), Bari (1935-1947), Roma (1947-1965), Cagliari (1959-1965);
due regioni in cui ha fatto ricerca etnografica: Basilicata (1949-1959),
Puglia (1959); sette volumi pubblicati: Naturalismo e storicismo nell'etnologia
(1941), Il mondo magico (1948), Morte e pianto rituale nel mondo
antico (1958), Sud e magia (1959), La terra del rimorso
(1961), Furore simbolo valore (1962), La fine del mondo
(1977; postumo, a cura di Clara Gallini).
Una sintetica cronologia
essenziale.
Esempi di studi di storia dell'antropologia condotti anche con l'esame
diretto di fonti d'archivio e di materiali inediti, sono i recenti lavori
demartinologici di Enzo Alliegro: «I
documenti d’archivio nella storiografia antropologica: problemi e prospettive.
L’esempio dei materiali inediti di Ernesto de Martino nell’Archivio Centrale
dello Stato e nell’Archivio Laterza», Palaver 6 (2017),
n.1, p. 169-317;
«“Etnografia
delle fonti” e storia dell’antropologia italiana 2.0. Riflessioni a partire
da un “inedito” di Ernesto de Martino», Dada. Rivista di
Antropologia post-globale, semestrale n. 1, Giugno 2017, p. 7-56
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martedì 26 marzo
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della lezione
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Risposta a una domanda sull'adesione di de Martino al fascismo.
Amalia Signorelli, Ernesto De Martino. Teoria antropologica e metodologia
della ricerca, Introduzione e cap. 1.
Amalia Signorelli (1934-2017) fu allieva di de Martino e nel 1957 si laureò
con lui, all'Università di Roma. Per la tesi fece una ricerca sul
campo nel 1956 a San Cataldo (Potenza) e il tema era l'applicabilità
alla situazione italiana dell'antropologia culturale di matrice statunitense.
Nel 1959 de Martino la chiamò a far parte dell'équipe di ricerca
che lavorò in Salento sul tarantismo. Dopo questa ricerca Signorelli
lasciò Roma e la collaborazione con de Martino non ebbe sviluppi
ulteriori, né, nella successiva lunga attività di studiosa,
Signorelli svolse ricerche di argomento o taglio 'demartiniani'. Cionondimeno
ha sempre operato, ha compreso dopo, da 'demartiniana inconsapevole', all'insegna
dello 'scandalo dell'incontro etnografico' e dello 'ethos del trascendimento'.
Questo libro del 2015 intende riflettere sull'opera di Ernesto de Martino
per valutare in che termini da essa si possa trarre una teoria antropologica
coerente e caratteristica, e quanto e come questa teoria possa essere utile
nel mondo e per l'antropologia contemporanei: nozioni come "angoscia
territoriale", "domesticità utilizzabile", "appaesamento",
"incontro etnografico", "crisi della presenza" paiono
utili per una antropologia che studi le migrazioni e la globalizzazione,
così come la proposta valoriale di un "umanesimo etnografico"
che fa da coronamento e obiettivo etico, politico e conoscitivo dell'antropologia
demartiniana.
Cap. 1: Antropologia orientata da valori, antropologia libera da valori.
La ricerca e la riflessione teorica di de Martino non erano e non intendevano
essere 'libere da valori': l'antropologo sta nella storia, le sue ricerche
sono prodotti storici e in nessuna situazione storica (e sociale) si dà
mai un vuoto di valori. Si può riconoscere lo sforzo di de Martino
di produrre una epistemologia e una etica dell'incontro etnografico e del
lavoro antropologico, che identifica nella idea di un nuovo e universale
umanesimo etnografico. Tre sono le tappe principali della elaborazione di
questa teoria: la critica del naturalismo etnologico e dei limiti del pensiero
occidentale (Naturalismo e storicismo nell'etnologia, Il mondo
magico), la sperimentazione del lavoro etnografico con i contadini lucani,
la riflessione teorica avviata per la ricerca su La fine del mondo.
Fin dalla Introduzione di Naturalismo e storicismo de Martino connota
il suo tentativo di fondazione di una etnologia storicista come una battaglia
di valori, nel pieno della crisi della civiltà occidentale. L'allargamento
dell'autocoscienza occidentale alla quale lo studio delle società
primitive può contribuire si configura come una autocritica della
civiltà occidentale stessa, una acquisizione di consapevolezza dei
suoi limiti: l'etnologia storicista dovrebbe essere insieme etnografia delle
società primitive e autoetnografia di quelle occidentali.
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venerdì 29 marzo
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Amalia Signorelli, Ernesto De Martino. Teoria antropologica e metodologia
della ricerca, cap. 1.
La seconda e la terza tappa della costruzione di una etica e di una epistemologia
dell'incontro etnografico: dalla ricerca sul campo in Basilicata alle riflessioni
sull'umanesimo etnografico. La differenza tra l'interazione del politico
e quella dell'etnografo con i suoi interlocutori, anche se sono gli 'stessi'
interlocutori, cioè contadini e contadine lucani: la 'crisi della
presenza' dell'etnologo sul campo. Carlo Levi e Cristo si è fermato
a Eboli come monografia etnografica (nella lettura di Pietro Clemente
e Daniel Fabre). De Martino e Gramsci: 'primato' della cultura Occidentale,
unificazione culturale dell'umanità.
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martedì 2 aprile
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Amalia Signorelli, Ernesto De Martino. Cap. 2: Il significato umano
degli accadimenti.
Il significato umano degli accadimenti si dà (si definisce, si
costruisce) come tale sia per chi conduce la ricerca (e interpreta gli
avvenimenti) sia per chi è oggetto della ricerca ( e gli avvenimenti
li vive): facilmente i due significati non coincidono. In una ricerca
antropologica alla individuazione del significato umano degli accadimenti
concorrono sia il lavoro etnografico, che consente di ricostruire il 'punto
di vista dei nativi', sia gli strumenti teorici che il ricercatore mette
in opera. Non c'è ricerca che si svolga in un vuoto di teoria:
se il ricercatore non dà conto degli strumenti teorici che impiega,
o non è consapevole di impiegarne, o deliberatamente li nasconde.
Quali sono i connotati della teoria antropologica demartiniana? Quali
sono stati gli 'ingredienti' di questa teoria, gli interlocutori con cui
de Martino ha dialogato?
I nomi di Omodeo, Aliotta, Macchioro, Pettazzoni, Croce, Gentile, Heidegger,
Paci, Jaspers, Husserl, Marx, Gramsci, Eliade, Freud, Jung danno una idea
(molto parziale) del ventaglio dei suoi riferimenti. C'è chi per
de Martino ha parlato di eclettismo teorico, come Cesare Cases, Clara
Gallini, Pietro Angelini. Amalia Signorelli preferisce parlare di utilitarismo
teorico, considerando che de Martino abbia scelto di volta in volta le
componenti teoriche che le esigenze della ricerca richiedevano (e si ritrova
nelle interpretazioni che hanno condotto Riccardo Di Donato a parlare
di storicismo ibridato, e Giovanni Piazza di antropologia molecolare,
quest'ultimo riflettendo in particolare su un confronto tra de Martino
e Gramsci).
Certamente però è la figura di Benedetto Croce quella che
spicca tra i punti di riferimento (in positivo e in negativo) di de Martino.
Concetti che de Martino impiega, come quello di 'origine e destinazione
interamente umane dei beni culturali', e la convinzione che l'interrogazione
storica parta sempre da sollecitazioni del presente e impegni sempre ad
andare oltre la datità delle situazioni, sono di ascendenza crociana,
e di marca storicista. Altri concetti, come 'ethos del trascendimento',
'domesticità utilizzable', 'rigenenerare mentalmente le pretese
degli umani' pure si devono al dialogo teorico diretto con Croce.
Per Signorelli la teoresi demartiniana è rimasta sempre sostanzialmente
fedele all'impianto storicista, l'orientamento storicista è restato
una presenza costante nella ricerca e nel pensiero di de Martino.
Pietro Clemente ha proposto una lettura diversa. Il suo saggio «Alcuni
momenti della demologia storicistica in Italia» (in L'antropologia
italiana. Un secolo di storia. Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 3-49)
è utile per definire in generale in cosa consista un approccio
storicista, e per quanto riguarda de Martino riconduce pienamente a quest'approccio
solo Naturalismo e storicismo nell'etnologia e Il mondo magico,
mentre per la produzione successiva parla di un sostanziale distacco di
de Martino dallo storicismo assoluto di stampo crociano: l'istanza storicista
sembra, dagli anni Cinquanta in poi, ridursi alla funzione di involucro
non realmente produttivo sul piano conoscitivo, e le riflessioni sulla
crisi della coscienza occidentale procedono e si sviluppano indipendentemente
da esso.
[altro testo citato è quello di Carlo Ginzburg, «Genèses
de La Fin du monde de De Martino», Gradhiva ,
n. 23, 2016, p. 194-213 (http://journals.openedition.org/gradhiva/3187)]
Infine, ricordiamo che Signorelli nota come tre aspetti fondativi dell'antropologia
demartiniana, come le riflessioni sul rapporto tra natura e cultura (e
sulla natura culturalmente condizionata), quelle sulla origine e destinazione
integralmente umane dei beni culturali, e quelle sul significato umano
degli accadimenti, possano esser visti, rispettivamente, comel'origine,
il perimetro e l'oggetto della ricerca antropologica di Ernesto de Martino.
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venerdì 5 aprile
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della lezione |
[attenzione: il file della registrazione della lezione è
leggermente difettoso: dopo 1 ora, 10 minuti e 50 secondi circa si sente
la frase "la dimensione individuale della crisi, la re-azione sociale,
l'ori... che informa di sè la reazione sociale"; al posto
di "l'ori..." si deve intendere "l'orizzonte culturale"]
Amalia Signorelli, Ernesto De Martino. Cap. 3: Presenza e crisi
della presenza
'Presenza', cause e forme della sua possibile crisi, tecniche di contrasto
della crisi e di reintegrazione. Punto di partenza per de Martino è
il concetto di Dasein di Martin Heidegger: presenza come esserci
nel mondo. Fondamentale è il -ci di esserci: sottolinea il carattere
cosciente dello stare al mondo, che è la condizione insieme normale
e necessaria dello stare al mondo dell'umanità. Tutti i gruppi
umani, in ogni tempo e in ogni luogo, sono stati e sono al mondo in modo
cosciente, sapendo di starci e sapendoci stare; tutti i gruppi umani,
cioè, hanno prodotto cultura, e il primo prodotto culturale di
ogni gruppo umano è quella che de Martino chiama 'domesticità
utilizzabile', cioè la trasformazione dell'ambiente in funzione
della sopravvivenza e della riproduzione del gruppo. La spinta necessaria,
originaria a produrre cultura, ad andare oltre la 'datità del reale',
de Martino la chiama 'ethos del trascendimento'. Qui sta la differenza
con il Dasein heideggeriano, che non include questa spinta, che
considera lo stare al mondo come una possibilità, un poterci essere,
mentre per de Martino è piuttosto un doverci essere.
Quando questa spinta all'oltrepassamento della condizione data viene meno,
si ha la 'crisi della presenza': un indebolimento o un blocco dello stare
al mondo cosciente, attivo, costruttivo. Questo può avvenire per
molte ragione e in molti modi, e può riguardare ogni gruppo umano;
ma va detto che nella storia si sono date forme molto diversificate di
coscienza, nei vari gruppi umani e nelle varie culture, e per de Martino
è la cultura Occidentale quella che ha sviluppato la forma più
articolata, complessa e forte di auto-coscienza della presenza nella storia.
Cionondimeno il rischio di crisi può riguardare anche la civiltà
europea: "la nostra civiltà è in crisi" è
una notazione che sta già nella Introduzione di Naturalismo
e storicismo nell'etnologia (1941), e la riflessione delle forme di
crisi della cultura europea saranno al centro del progetto di studio della
Fine del modo.
La casistica di forme di crisi della presenza che de Martino discute nei
suoi libri e nei suoi saggi riguarda il manifestarsi della crisi a livello
individuale, ma si tratta sempre e comunque di fatti culturali, dunque
collettivi: la diagnosi e l'autodiagnosi della crisi e delle sue cause
così come le tecniche terapeutiche si basano su un orizzonte culturale
condiviso dal gruppo sociale, che informa di sé l'intero ciclo
malessere-cura.
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martedì 9 aprile |
Il corso ospita la Sessione plenaria del Seminario interreligioso Europa,
religioni, dialogo promosso dal progetto TandEM, con la partecipazione
di Alessandro Saggioro, Stefano Tedeschi, Eugenio Testa, Rossella Celmi,
Maryam Turrini, Luca Spizzichino, Pietro Paolo Cascone, Rav Riccardo Di
Segni, Suor Elsa Antoniazzi, Svamini Hamsananda Ghiri, Imam Yahya Pallavicini,
Antonello Folco Biagini. Il seminario proseguirà con due Laboratori
per studenti nella giornata di giovedì 11 aprile. E' disponibile
il programma
completo dell'iniziativa. |
venerdì 12 aprile
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della lezione |
Amalia Signorelli, Ernesto De Martino. Cap. 3: Presenza e crisi della
presenza
Della storia è sola autrice l'umanità (origine e destinazione
integralmente umane dei beni culturali): nessuna realizzazione storica è
garantita per sempre (ce lo hanno ricordato, martedì scorso, le considerazioni
di Antonello Biagini sulle tragiche traversie della città di Sarajevo,
che pure qualche decenno fa era un modello di pluralismo culturale), ma
quasi sempre si può trovare la via storica per costruire (o ricostruire)
cultura.
Anche la condizione di sanità, per de Martino, è una largamente
una costruzione culturale, è largamente frutto di un impegno costante
dei gruppi umani e dei singoli esseri umani (fatti salvi i limiti eventualmente
imposti da condizioni psico-somatiche invalidanti): 'essere sani' è
il risultato di un costante impegno a 'farsi sani'.
Il 'negativo dell'esistenza' può riferirsi a ogni accadimento e darsi
in ogni condizione esistenziale, e non sempre si riesce ad affrontarlo con
comportamenti 'realisticamente orientati'. In questi casi la presenza (la
capacità di agire in modo cosciente e progettuale) è a rischio
di crisi, rischio che si modella in modo culturalmente determinato: "ogni
cultura ha costruito una sua mappa delle crisi possibili, stabilendo qual
è la gravità di ciascuna di esse, quali sono i soggetti più
esposti, qual è la procedura della reintegrazione" (Signorelli,
p. 83).
Pratiche magiche, esorcismi, ritualizzazioni non sono manifestazioni di
crisi della presenza, ma (inizi di) cura: "queste pratiche sono già
reintegrative della presenza, sono vie d'uscita verso la 'sanità',
e dunque sono cultura" (Signorelli, p. 84). Sono tecniche funzionali
alla lotta contro il 'negativo dell'esistenza', necessarie per l'attivazione
di quel meccanismo che de Martino chiama 'destorificazione del negativo':
il negativo dell'esistenza si presenta nella storia, nella quotidianità
realmente vissuta, e quando non si riesce ad afffrontarlo e a superarlo
con le soluzioni razionali e realistiche che sono usualmente efficaci e
sufficienti, si ricorre a una uscita temporanea dalla storia, culturalmente
controllata. "Il dato esistenziale che ha scatenato la crisi (morte,
malattia, paura e altro ancora) viene mentalmente astratto dal contesto
storico per entro il quale è stato esperito e viene ricondotto a
un tempo e a una vicenda mitici, un illud tempus nel quale esso si
è manifestato per la prima volta e per la prima volta ha trovato
una soluzione soddisfacente. [...] E' necessario però rendere presenti,
presentificare nella situazione reale, le condizioni che si sono date in
illo tempore nella situazione mitica, ed è questo il compito
che il rito è chiamato ad assolvere. Il mito è una narrazione,
il rito è un comportamento tecnico standardizzato orientato verso
uno scopo; in un certo senso si potrebbe dire un comportammento tecnico
collaudato" (Signorelli, p. 85). Il dispositivo di destorificazione
del negativo (mito+rito) consente di costruire un regime protetto, una realtà
parallela, che è una realtà simbolica, una dimensione in cui,
grazie ai simboli (che sono qualcosa "che 'sta per' qualcosa d'altro"),
si può dare spazio anche a ciò che c'è di "irrazionale
nei pensieri e nei comportamenti umani".
Ciò a cui mira innanzitutto la destorificazione del negativo è
il controllo dell'angoscia umana: "non è il negativo che ci
assilla o ci minaccia a essere risolto: è la crisi della presenza
a essere posta sotto controllo [...] attraverso l'esorcismo mitico-rituale.
Esso garantisce la possibilità di tornare a operare, di affrontare
'realisticamente' il negativo 'reale': certo, non necessariamente di risolverlo.
Ma come tutti sappiamo per esperienza, il risultato 'reale' non è
l'unico risultato che in questi contesti importa raggiungere" (Signorelli,
p. 87). Va infine sottolineato che tutto ciò non riguarda (solo)
tempi e luoghi lontani, ma anche il qui e l'oggi: "Nelle società
contemporanee che si pretendono secolarizzate, la destorificazione del negativo
attraverso il simbolismo magico-religioso non è affatto scomparsa:
è addirittura integrata e rafforzata da una ricca fioritura di linguaggi
simbolici che investono gli ambiti dell'economico [...], del politico [...],
della ricreazione e del tempo libero [...]" (Signorelli, p. 87-88). |
martedì 16 aprile
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della lezione |
Amalia Signorelli, Ernesto De Martino. Cap. 4: Il problema e il
documento. Sul lavoro di campo di Ernesto de Martino.
Non esistono interventi il cui de Martino definisca compiutamente i principi
e i metodi del suo lavoro di campo, ma importanti indicazioni si trovano
in diversi suoi scritti. Tra questi è importante l'Introduzione
a La terra del rimorso (1961), che si apre con alcune considerazioni
sulla necessità di una nuova consapevolezza da parte degli etnologi
del senso del loro incontro etnografico con la diversità culturale.
De Martino cita a questo riguardo Claude Lévi-Strauss che in Tristi
tropici (1955) aveva parlato della scelta di andare a fare inchieste
etnografiche come della "conseguenza di una scelta più radicale,
che implica la messa in causa del sistema nel quale si è nati e
cresciuti", aveva osservato che "Se l’occidente ha prodotto
degli etnografi è perché un cocente rimorso doveva tormentarlo",
aveva parlato delle "colpe" dell'etnografo, concludendo che
"la sua stessa esistenza di etnografo è incomprensibile se
non come tentativo di riscatto: la condizione di etnografo è simbolo
di espiazione". E' interessante osservare che de Martino già
nel 1950 aveva usato accenti analoghi nella conclusione del suo saggio
«Note lucane» (ne parleremo).
Signorelli tratteggia diversi aspetti dello stile etnografico di de Martino
partendo dalla discussione di alcune critiche di Francesco Faeta, che
ha considerato come dei limiti la brevità dei soggiorni sul campo
di de Martino e il fatto che abbia indagato solo realtà culturali
italiane. In realtà, dice Signorelli, il modo di fare etnografia
di de Martino era funzionale alle sue scelte di ricerca: non faceva indagini
'di comunità', ma indagava istituti culturali (lamentazione funebre,
magia, tarantismo), con la doppia attenzione di tipo antropologico (presenza,
crisi e reintegrazione) e di tipo storico (la persistenza di questi istituti
culturali 'arcaici' come indice dei limiti della capacità di espansione
della cultura egemonica). Inoltre, gramscianamente, la connessione tra
stratificazione sociale (in base a fattori economici, di potere, di genere)
e articolazione dei fatti di cultura (concezioni del mondo e della vita
che fanno da collante identitario per i gruppi sociali, grandi e piccoli,
che le condividono) fonda la possibilità dello studio pienamente
antropologico anche in una prospettiva di 'antropologia domestica', centrata
sulla stessa nazione di cui l'osservatore fa parte.
Problema-documento: senza documenti la analisi di un problema storico
è impossibile, senza un problema storico a fare da centro della
ricerca una collezione di documenti è priva di senso e di valore.
Il lavoro di équipe, multidisciplinare ma centrato sul punto di
vista dell'analisi antropologica (etnologica, storica, storico-religiosa)
rappresentato da de Martino stesso.
La presenza nelle équipe di ricerca allestite da de Martino di
fotografi (Arturo Zavattini, Franco Pinna, Ando Gilardi) e dell'etnomusicologo
Diego Carpitella, e il dialogo e la collaborazione di de Martino con diversi
cineasti (Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Michele Gandin, Gianfranco Mingozzi)
ebbero importanti effetti sullo sviluppo dell'etnomusicologia e dell'antropologia
visiva italiane negli anni e nei decenni successivi.
[testi citati: Francesco Faeta, Le ragioni dello sguardo.Torino,
Bollati Boringhieri, 2011, in particolare il capitolo 4 «Un'antropologia
senza antropologi? Sulla tradizione disciplinare italiana», p. 89-131;
Fabio Dei, «L'antropologia
italiana e il destino della lettera D». L'Uomo, n. 1-2,
2012: 97-114; Francesco Faeta, «Ancora sul destino della lettera
D (... e della lettera A). Riflessioni a partire da uno scritto di Fabio
Dei». L'Uomo, n. 2, 2014: 107-122]
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martedì 30 aprile
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della lezione |
I tre saggi «Intorno a una storia del mondo popolare subalterno»
(1949), «Note lucane» (1950) e «Note di viaggio»
(1953) furono pubblicati in un periodo in cui diversi cambiamenti si verificavano
nella vita di Ernesto de Martino. Dal 1947 si era trasferito a vivere
a Roma, con Vittoria De Palma; si stava inserendo nella industria culturale
(si occupava della Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici
- la 'Collana viola' - dell'editore Einaudi e collaborava come consulente
con diverse case editrici); stava passando dalla militanza nel PSI a quella
nel PCI; cominciava a costruire la sua carriera universitaria (libera
docenza in Etnologia, corsi liberi all'Università di Roma); avviava
una attività di ricerca sistematica (ricerche sul campo in Basilicata,
sperimentazione della ricerca in équipe, costituzione del Centro
Etnologico Italiano che fu punto di riferimento di studiosi più
giovani come Alberto Mario Cirese, Diego Carpitella, Tullio Seppilli,
Vittorio Lanternari).
Tra i tre saggi possiamo trovare punti di contatto importanti e importanti
differenze.
In comune hanno, sul piano metodologico e stilistico, il rilievo dato
al carattere di "documento vivo di una umanità che cerca drammaticamente
un'altra umanità" (secondo una espressione di de Martino,
usata in «Note di viaggio» per caratterizzare il suo incontro
etnografico con i contadini lucani), e sul piano dei contenuti l'attenzione
data al rapporto tra 'umanità' e 'storia'.
La più importante differenza tra il primo e gli altri due è
data dal fatto che dietro a «Intorno a una storia del mondo popolare
subalterno» non c'è ancora una esperienza di incontro etnografico:
le 'voci' del mondo popolare subalterno italiano che sono riportate alla
fine del saggio sono riprese dalle pagine di Cristo si è fermato
a Eboli di Carlo Levi e dalla propria esperienza di dirigente del
Partito socialista in Puglia.
La più importante differenza tra il primo e il secondo, da una
parte, e il terzo, dall'altra, è data dagli accenti fortemente
politicizzati dei primi due, che lasciano il posto a un approccio più
'scientifico' del terzo: de Martino nel 1953 aveva alle spalle ormai qualche
anno di ricerche in Basilicata, e soprattutto la importante spedizione
in équipe dell'ottobre 1952; la tensione etica è sempre
molto forte, e molto sentito il 'dramma' dell'incontro etnografico, ma
in primo piano ci sono i toni dello 'storico-etnografo'.
In «Intorno a una storia del mondo popolare subalterno» de
Martino riprende la critica dell'etnologia tradizionale sviluppata nel
1941 in Naturalismo e storicismo nell'etnologia, dando ora una
spiegazione politico-sociale ai limiti del suo umanesimo: l'etnologia
tradizionale è al servizio di visioni e di interessi particolari,
quelli delle classi dominanti. Ma l'ordine mondiale è in crisi,
e questo determina la crisi anche delle scienze etnologiche: la crisi
è determinata dall'irruzione nella storia del mondo popolare subalterno
(l'insieme dei popoli coloniali e semicoloniali e delle classi subalterne
dei paesi egemoni e colonialisti), irruzione che ha marcato un primo epocale
successo con la rivoluzione russa, e che sta portando in una posizione
sempre più attiva e cosciente masse popolari nelle nazioni occidentali
e interi popoli nei paesi coloniali e semicoloniali. Questo processo storico
porta con sé, come effetto inevitabile, un certo imbarbarimento
della cultura e del costume, che coinvolge lo steso marxismo, man mano
che la sua (benefica) influenza si diffonde e si radica tra le masse.
Il ruolo degli intellettuali e dell'alta cultura deve essere quello di
intervenire attivamente in queso processo, 'storicizzando' quanto di arcaico,
magico, millenarista è presente nella cultura popolare, sia al
fine di far maturare la cultura popolare in direzione di una 'riforma
popolare moderna' sia al fine di impedirne la strumentalizzazione da parte
di forze reazionarie, come avvenne nella Germania nazista. Oltre però
al processo di comprensione storiografica è necessario il reale
e concreto intervento a livello sociale per superare la condizione subalterna.
Cesare Luporini, interpretando le posizioni di un marxismo più
ortodosso, sulle pagine della stessa rivista Società respinse
alcune delle posizioni di de Martino, sostenendo che solo nella cultura
popolare, ma non anche nel marxismo, potevano essere presenti aspetti
arcaici e magici: il punto era, per Luporini, che de Martino sottovalutava
il ruolo progressivo della classe operaia, di cui il marxismo era la teoria,
confondendola nel contesto indistinto del 'mondo popolare subalterno'
e finendo perciò con l'assumere (de Martino) accenti populisti.
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venerdì 3 maggio
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della lezione |
- Ernesto de Martino, «Intorno a una storia del mondo popolare subalterno».
Società, 5. (1949), n. 3, p. 411-435
- Ernesto de Martino, «Note lucane». Società,
6. (1950), n. 4, p. 650-667; poi in Id., Furore Simbolo Valore. Milano,
Feltrinelli, 2002 [1962], p. 119-133
- Ernesto de Martino, «Note di viaggio». Nuovi Argomenti,
1. (1953), n. 2, p. 47-79 |
martedì 7 maggio
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della lezione |
Ancora su Ernesto de Martino, «Note di viaggio»:
1) il futuro, possibile superamento del materialismo storico, nella prospettiva
del futuro, possibile superamento della divisione in classi e della diseguaglianza
nella società; de Martino cita Gramsci: "Si può persino
giungere ad affermare che mentre tutto il sistema della filosofia della
prassi può diventare caduco in un mondo unificato, molte concezioni
idealistiche, o almeno alcuni aspetti di
esse, che sono utopistiche durante il regno della necessità, potrebbero
diventare «verità» dopo il passaggio ecc. Non si può
parlare di «Spirito» quando la società è raggruppata,
senza necessariamente concludere che si tratti di... spirito di corpo
[...] ma se ne potrà parlare quando sarà avvenuta l’unificazione"
(Q. 11, § 62, p. 1490); "L’uomo conosce oggettivamente in quanto
la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato
in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica
avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la
società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione
dei gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete ma
rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza.
C’è quindi una lotta per l’oggettività (per liberarsi dalle
ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta
per l’unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti
chiamano «spirito» non è un punto di partenza, ma di
arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione
concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario
ecc." (Q. 11, § 17, p. 1416). De Martino chiosa e conclude "Il
limite dell'umanesimo di Palazzo Filomarino [cioè di Croce] è
tutto qui"
2) l'interpretazione della lamentazione funebre tradizionale: un cordoglio
che si esprime in forme ritualizzate, iterative, quasi automatiche, e
che si può replicare a richiesta del ricercatore, è frutto
di un dolore sincero, autentico, spontaneo? Dice de Martino: "L'alternativa
ermeneutica artificio-sincerità è mal posta. Ciò
che appare come pianto senz'anima, convenzionale, automatico, è
in realtà destorificazione intenzionale del momento critico della
morte, o quanto meno attenuazione della sua storicità. Rispetto
alla forma il lamento è un sistema solidale, tradizionalizzato
fin quasi all'automatismo, di ritmi, immagini, gesti, un sistema che tende
a completarsi appena alcuni suoi elementi entrano in azione. [...] Il
tendenziale automatismo del complesso è inerente alla funzione
destorificante: e non deve stupire il fatto che non c'è grande
differenza fra il pianto rituale davanti al morto, e il lamento intonato
fuori della sua occasione reale, cioè per soddisfare la richiesta
del ricercatore. Il lamento di Prudente fra gli ulivi della campagna di
Pisticci, o di Rosa accoccolata in un angolo del ripostiglio, hanno preso
ben presto l'andamento di lamenti "veri". Gli occhi di Rita
hanno versato lacrime sul serio, e Rita ha riso vedendosi piangere senza
il morto." E ancora: "Queste donne non sono in condizione di
accettare la storicità della morte, e quindi di creare volta a
volta il loro dolore di fronte ad essa, in piena libertà e spontaneità.
Queste donne - Giulia, Prudente, Rosa, Maria ... - non possono piangere
laicamente i loro morti, perché se lo tentassero, verrebbe su dal
fondo dell' anima tutta l'angoscia della storia accumulata per generazioni,
ed esse come persone, come presenze attive, ne sarebbero schiantate e
travolte. Queste donne dominate dall' angoscia della storia soggiacciono
a rischi estremi nel momento più rivelatore di storia che è
nella storia, cioè, appunto, la morte: onde, per mantenersi come
persone, sono costrette a destorificare l'evento della morte,
a trasferirlo su un piano metastorico, rituale, dominato dalla negazione
della storia, dalla ripetizione. Questa è la genesi del cordoglio
in metro, tipico, tradizionalizzato, risolto in sistema di ritmi,
di immagini e di gesti che tende a tornare per ogni morte possibile, e
a risolversi al limite in sequenze automatiche in cui la insopportabile
storia si attenua e si spegne." E ancora: "Maria Jacovaro di
Stigliano mi ha detto che i morti si fanno morire tre volte: il giorno
del decesso, dopo un mese e dopo un anno. Allo scadere del mese o dell'
anno, ci si alza al mattino e si piange. Le ho chiesto: «E se le
lacrime non vengono?». Mi ha risposto: «Forse a noi, perché
siamo cafoni, le lacrime vengono più facilmente»." E
infine: "Oggi ho ripensato a lungo a questa interpretazione del lamento
funebre lucano, e mi sono persuaso che la realtà del lamento non
è tutta qui. Destorificazione e automatismo sono soltanto un momento
del cordoglio rituale, poiché la storia è più forte
dei tentativi umani per evadere da essa. «Sei caduto in mezzo alla
strada con la tua zampogna ... »: qui affiora una memoria concreta,
legata a una catastrofe storicamente circostanziata. La tradizione prescrive
di cantare in metro la scena della morte violenta, ma quale sia questa
scena solo il caso particolare può suggerirlo. Sul piano stesso
della metastoria, del prescritto, del tipico, la stoticità della
morte riguadagna terreno, insorgendo in immagini singolarizzate, in espressioni
di un dolore attuale e personale. Si direbbe che solo su questo piano
metastorico la storicità della morte diventa accessibile, sperimentabile,
sopportabile."
- Ernesto de Martino, «Il problema della fine del mondo».
In Il mondo di domani. A cura di Pietro Prini. Roma, Abete, 1964,
p. 225-231
- Ernesto de Martino, «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche».
Nuovi Argomenti, n. 69-71, 1964, p. 105-141
Tra il 1953 e il 1964, quando vengono pubblicati i due testi che sono
gli unici scritti da de Martino in cui lui dia conto delle ricerche sul
tema delle apocalissi culturali, nella vita di de Martino molte cose sono
avvenute: ha concluso il periodo della ricerca etnografica in Basilicata
e in Puglia, ha pubblicato le tre monografie che ne discendono (Morte
e pianto rituale nel 1958, Sud e magia nel 1959, La terra
del rimorso nel 1961) e un quarto volume che è una raccolta
di saggi (Furore simbolo valore, nel 1962), è diventato
professore di Storia delle religioni all'Università di Cagliari
(dall'a.a. 1958/1959).
I due testi hanno taglio e ampiezza diversi, ma sono entrambi importanti
e utili per avere un quadro di come de Martino intendeva impostare la
sua nuova ricerca, che altrimenti conosciamo solo nell'assetto che Clara
Gallini scelse di dare ai materiali inediti pubblicando nel 1977 La
fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali.
Dal secondo capoverso di «Il problema della fine del mondo»
possiamo ricavare una definizione di 'mondo': " il mondo, cioè,
la società degli uomini attraversata da valori umani e operabile
secondo questi valori".
Le prime righe di «Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche»
ci danno quella di 'apocalissi culturali': "Le apocalissi culturali,
nella loro connotazione più generale, sono manifestazioni di vita
culturale che coinvolgono, nell'ambito di una determinata cultura e di
un particolare condizionamento storico, il tema della fine del mondo attuale,
quale che sia poi il modo col quale tale fine viene concretamente vissuta
e rappresentata." Le prime pagine di questo saggio procedono poi
a definire come si intenda studiarle: con "una ricerca storico-culturale
e antropologica, cioè genetica, strutturale e comparativa";
e quali siano i documenti di apocalissi culturali che l'autore intende
studiare: "il documento apocalittico nell'occidente moderno e contemporaneo",
"il documento apocalittico della tradizione giudaico-cristiana della
letteratura paleo- e neotestamentaria", "il documento apocalittico
delle grandi religioni storiche, connesso al mito delle periodiche distruzioni
e rigenerazioni del mondo", e infine "il documento etnologico
degli attuali movimenti religiosi profetici e miIlenaristici delle culture
cosiddette primitive". Un quinto tipo di documento va preso in esame,
complementarmente e contrastivamente rispetto ai primi quattro: "quello
psicopatologico, che ci mette in rapporto con un comune rischio umano
di crisi radicale, rispetto al quale le diverse apocalittiche culturali,
comunque atteggiate, si costituiscono tutte come tentativi, variamente
efficaci e produttivi, di mediata reintegrazione in un progetto comunitario
di esserci-nel-mondo".
La distinzione fondamentale tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche
sta dunque nel fatto che le prime si presentano comunque come culturalmente
produttive, mentre le seconde segnalano il rischio della "caduta
della energia presentificante su tutto il fronte della possibile valorizzazione",
il rischio "di non poterci essere in nessun mondo culturale storicamente
determinato".
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venerdì 10 maggio
audio
della lezione |
- Ernesto de Martino,
«Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche». Nuovi
Argomenti, n. 69-71, 1964, p. 105-141
appaesamento, domesticazione, domesticità, utilizzabilità,
patria culturale dell'agire, sfondo dell'operabile, rocca dell'ovvietà,
fedeltà all'umano... VS vissuto dell'essere-agito-da |
martedì 14 maggio
audio
della lezione |
- Ernesto de Martino,
«Rapporto sull'aldilà». Intervista di Fausta Leoni con
E. de Martino. L'Europeo, 11. (1965), n. 21, 23 maggio, p. 82-87
- Cesare Cases, «Un colloquio con Ernesto de Martino», Quaderni
piacentini, n. 23-24, maggio-agosto 1965
- Alberto Mario Cirese, «Commemorazione di Ernesto de Martino».
Inedito; intervento tenuto a Roma il 4 giugno 1965 alla commemorazione di
E. de Martino presso la Libreria Einaudi |
venerdì 17 maggio
audio
della lezione |
- «Ricordo di Ernesto
de Martino». Commemorazione tenuta il 29 giugno 1965 per le stazioni
del Terzo Programma della RAI (37'). Interventi di Enzo Paci, Carlo Levi,
Diego Carpitella, Giovanni Jervis. Quaderni dell'Istituto Sardo di
Studi Etnomusicologici (Sassari), n. 1. 1966
- Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle
apocalissi culturali. A cura di Clara Gallini. Torino, Einaudi, 1977
[testi citati: Clara Gallini, Intervista a Maria. Palermo, Sellerio,
1981; ristampa: Nuoro, Ilisso, 2003; Clara Gallini, Incidenti di percorso.
Antropologia di una malattia. Roma, Nottetempo, 2016] |
martedì 21 maggio
audio
della lezione |
- Ernesto de Martino,
La fine del mondo. [0]: "Prefazione", § 1-8, p. 3-10;
2.4: "Dalla metastoria alla storia", § 196-201, p. 351-358 |
venerdì 24 maggio
audio
della lezione |
- Ernesto de Martino, La fine del mondo. 2.4: "Dalla metastoria
alla storia", § 196-201, p. 351-358; 3.3: "L'umanesimo etnografico",
§ 213-227, p. 389-413 |
martedì 28 maggio
audio
della lezione |
- Ernesto de Martino, La fine del mondo. 3.3: "L'umanesimo
etnografico", § 213-227, p. 389-413; 5.3.4: "L'ethos del
trascendimento", § 381-401, p. 668-684 |